New York, 1893. Un erede di buona famiglia è combattuto tra la passione per Edward e la stabilità di Charles. New York, 1993. Un giovane squattrinato vive con un partner più vecchio e ricco ma malato di AIDS. New York, 2093. Sotto un regime totalitario in un mondo invaso dalle pandemie, una ragazza speciale deve sopravvivere alla morte del nonno tanto amato.
A sei anni dal successo mondiale di Una vita come tante, Hanya Yanagihara torna in libreria con un romanzo, Verso il paradiso, che inquadra le diverse possibilità di vita dei personaggi a prescindere dall’epoca in cui vivono e dalla loro estrazione sociale.
Il romanzo ha una struttura narrativa davvero particolare perché è diviso in tre parti e in ciascuno di esse i protagonisti possono sembrare gli stessi ma hanno vite diverse, ciascuno con il suo bagaglio personale e ciascuno con condizioni economiche molto differenti.
Nel primo capitolo c’è David Bingham, un ragazzo molto solo, ricco ma infelice che vive con il nonno nella villa di Washington Square e viene incoraggiato a sposare Charles Griffith, quando invece prova dei sentimenti per Edward Bishop, con ogni probabilità un imbroglione che mira solo ai suoi soldi.
Nel secondo David Bingham è un mantenuto che vive alle spalle del compagno Charles nella villa di Washington Square, circondato dagli amici di lui, quasi tutti affetti da una malattia che con ogni probabilità è AIDS. Nel suo passato c’è un’infanzia difficile a causa di un padre – anche lui David – fortemente instabile e che si lascia plagiare dal compagno Edward.
Anche nella terza parte ci sono un Charles e un David, e questa volta sono un padre e un figlio ribelle che non accetta il ruolo che il genitore, scienziato, ha ricoperto nella società per frenare il diffondersi delle sempre più frequenti epidemie. In questo capitolo c’è però anche una Charlie, una ragazza cresciuta dal nonno Charles nella villa di Washington Square, sopravvissuta alla malattia ma rimasta menomata, sterile e profondamente incapace di comunicare il suo mondo interiore.
Non lo nego: all’inizio è difficile seguire il discorso perché ad ogni capitolo bisogna dimenticare ciò che hai memorizzato in precedenza, i ruoli di ciascun personaggio e le parentele.
Il filo conduttore che unisce le tre storie è la ricerca della felicità in un mondo in cui la libertà è messa a dura prova e imprigionata in vincoli predefiniti.
L’ultima delle tre parti, la più corposa e la più complessa, è quella che dà il senso a tutto il romanzo e in cui i personaggi vengono sviscerati in tutte le loro diversità e sfaccettature. La città è ancora una volta New York, ma nella metropoli del futuro tutti si muovono sotto l’occhio vigile dello Stato, dove le pandemie si susseguono lasciando dietro sé morti e guariti sterili, dove ci si prepara alla prossima infezione di un virus più aggressivo. Ma non sono i virus i nemici più pericolosi, ma l’atmosfera di repressione che aleggia su tutto. La libertà è una mera illusione, e pure le emozioni devono essere mostrate il meno possibile: la tenerezza è dimenticata e la passione amorosa, se non proprio sconsigliata, ha perso d’importanza.
Negli anni, ho provato spesso stupore e sgomento e perfino paura per la passività mostrata dalla gente: la paura della malattia, l’istinto umano di conservare la salute, ha eclissato quasi ogni altro desiderio e valore che prima era importante, e molte delle libertà che tutti consideravamo inalienabili. La paura è stato lievito per lo stato, e ora lo stato genera la paura da sé quando sente che la popolazione sta calando.
Detta così può sembrare l’ennesimo romanzo distopico o catastrofico in cui una pandemia minaccia di sterminare la razza umana. Ma per l’autrice questa è solo la scenografia, la cornice in cui si muovono i personaggi, mentre sono preponderanti i sentimenti che non trovano sfogo nel confronto con l’altro ma restano imprigionati nel profondo del cuore. In fondo i vari David, Charles, Edward, Peter e Charlie potrebbero essere amici di Jude, il protagonista del romanzo precedente, e come lui devono fare i conti con la solitudine, con la malattia, con il razzismo, con i pregiudizi sulle unioni omosessuali (ora accettate, ora tollerate), ma possono contare sul potere curativo dell’amicizia.
Di sicuro Verso il paradiso non è il romanzo che ci si aspettava dall’autrice e chi cerca una storia classica sulla falsariga di Una vita come tante rimarrà immancabilmente deluso se non accetta di uscire dagli schemi canonici. Questo è invece un romanzo molto più moderno, con una struttura più articolata, che reinterpreta il mondo di oggi, non solo quello della pandemia, ma quello in cui è lo stato a imporsi sulla vita dei cittadini, a controllarla. (A questo proposito, l’autrice ha dichiarato di essersi fatta ispirare dalla politica accentratrice di Trump.)
Se per tre quarti del libro ho pensato che non fosse all’altezza del precedente, ho capito solo alla fine quanto mi sia piaciuto, quando non riuscivo a pensare di cominciare un nuovo libro e abbandonare Charlie e il nonno.